TOTTA e DYLAN

2.4 - Architettura rurale nel Salento

Accumuli concentrati

"li puzzi" e "le cisterne"

La mancanza di sorgenti in superficie e di corsi d’acqua fece sì che l’approvvigionamento idrico venisse ricercato nel sottosuolo. Pertanto si scavarono manualmente i pozzi e dove il terreno presentava una falda impermeabile o roccia di calcare compatto, si costruirono le cisterne, quali serbatoi di acqua piovana che ne assicuravano una certa quantità.


I pozzi erano scavati in terreni ad “acqua circolante” aventi la forma interna quadrangolare o circolare.
Il rivestimento interno era realizzato con pietre di calcare permeabile, “la camisa”, cementate con bolo [01], in modo da lasciarvi filtrare le abbondanti acque freatiche.
La bocca del pozzo, protetta da un “puteale” (in gergo “lu pustale”), che spesso era un blocco monolitico con foro centrale oppure formato da quattro conci di tufo disposti in quadrato, veniva costruita anche in forme più rifinite e monumentali.


Le cisterne erano scavate nel terreno, o ricavate in un crepaccio naturale più o meno profondo e capace, o costruite partendo dal piano di campagna, aventi la forma interna “a campana” o “pseudo-prismatica”, esternamente assumono conformazioni che variano planimetricamente ed altimetricamente.
Il rivestimento interno, intonacato con malta di calce mista con cocci di vasi di creta e battutacon speciali magli veniva resa impermeabile.
Le caratteristiche tecnico-formali della cisterna utilizzano gli stessi principi costruttivi dei “truddi”.


Sistema di canalizzazione e raccolta delle acque

"le spase" e "le littere"

Di modeste dimensioni, erano realizzate con il materiale proveniente dalla spietratura del terreno, ammucchiato in piccoli coni sul terreno.
I modesti cumuli sollevati fino ad una certa altezza dal suolo, mantenendo la base circolare dell’originale cono di pietra , davano le spase.
Quando gli accumuli di pietre erano di scarsa entità e sparsi qua e là, venivano utilizzati per farne delle littere.
Queste consistevano infatti in muretti pianeggianti poco sollevati dal terreno e larghi circa un metro; erano formati da massi più grossi verso l’esterno e da più piccoli nell’interno, mentre la superficie veniva coperta da pietre minutissime, per renderla agibile.
Non essendoci ancora, al tempo, “lu cannizzu”, cioè una specie di stuoia fatta con canne tagliate e legate, le spase e le littere servivano come piattaforma per adagiare ed essiccare al sole i fichi spaccati per metà.
Queste costruzioni in pietra a secco venivano coperte con uno spesso strato di “fumuli” (Hjpericum crispum), pianta comune del periodo estivo che grazie alle sostanze contenute permetteva aerazione e sofficità caratteristiche necessarie al buon essiccamento dei fichi.
Alla fine della stagione i fichi essiccati venivano infornati per garantire la conservazione. Terminata la cottura e sfornati, dopo un’oculata cernita, i migliori venivano pigiati a strati, anche con foglie di alloro, in recipienti di terracotta detti “capase”. Si formava così una massa compatta , tanto che ci si serviva di un arnese speciale “li scoddafiche”, per poterli staccare tra loro.

"li furni"

Queste costruzioni assumevano dimensioni minori del "truddu", ma erano sempre realizzate in pietra a secco e con il sistema a "tholos" (termine greco usato impropriamente per indicare una costruzione circolare a falsa volta).
Avevano la bocca proporzionata alla costruzione, rivestita con intonaco di creta, applicato a mano e la base pavimentata con lastre di pietra calcarea dette ”chianche”.

(2.4 - continua)

Notizie e immagini, dove non specificato, sono tratte da:
Arch. Gabriele Grasso - Architetture in pietra a secco nel Salento - Edizioni del Grifo, Lecce, 2000

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